Perché siamo sempre uguali ma anche sempre diversi? Cosa ci spinge ad affrontare l’esistenza? Come possiamo afferrare i nostri cambiamenti nel tempo come aspetti del nostro sé più profondo? Scopriamo il programma Intelletto Attivo che ci consente di ricomporre i pezzi della nostra realtà.
Nella più semplice delle sensazioni, un sapore o una carezza del vento, come nell’esperienza accumulata in una intera vita, sperimentare significa attraversare un cambiamento nelle percezioni che viviamo nella coscienza. Non è un argomento, questo, che possa essere affrontato in maniera astratta se non a rischio di costruire un sistema puramente logico che finirebbe col contrastare irrimediabilmente con i fatti: l’unico punto di partenza valido è dato dall’esperienza comune dell’individuo sano e normale. La capacità di pensare, o intelletto, consente infatti di porsi attivamente di fronte all’insieme della propria esperienza, raccolta nelle rappresentazioni, per mettere ordine o organizzare l’esperienza sensoria che altrimenti si mostrerebbe priva di senso o caotica, come appunto in chi ha organi sensori alterati. Sperimentare o cambiare è dunque un processo che avviene nell’ambito del rapporto tra un centro di rappresentazione, che è stato chiamato il sé o io, che rispecchia l’esperienza materiale in maniera sintetica e analitica, ed i singoli atti o momenti di interazione con l’esterno o esperienza.
In questo rapporto consiste propriamente la coscienza di veglia che una persona sana sperimenta fondamentalmente dal momento del risveglio mattutino fino alla sua estinzione la sera nell’addormentarsi: stato di coscienza caratterizzato dalla presenza di un centro di coscienza, appunto, che sperimenta le rappresentazioni a contatto con la realtà, a cominciare dalla rappresentazione di sé o rappresentazione dell’Io. Al contrario, durante il sonno notturno tutta la coscienza, la rappresentazione dell’Io e le altre rappresentazioni in cui consiste l’esperienza spariscono pressoché del tutto, salvo ripresentarsi la mattina dopo tali e quali.
Alle prime due domande dunque - cosa ci spinge ad affrontare l’esistenza? e perché siamo sempre uguali ma anche sempre diversi? - sulla base del comune buon senso legato all’esperienza accessibile alla persona normale e che pertanto non può essere ragionevolmente messa in discussione, si può senz’altro fornire una prima risposta sicura affermando che è il nostro organismo vivo che lo rende possibile, secondo un meccanismo naturale e biologico che, a tutta prima, appare tale proprio perché è attivato e mosso indipendentemente dalla nostra volontaria partecipazione. In un certo senso l’individuo è spettatore della sua stessa esistenza che, sostenuta dall’organismo, si alterna tra stati di coscienza e stati di incoscienza.
Sperimentare le rappresentazioni della coscienza non è dunque una questione di scelta, ma un fatto naturale ed automatico indissolubilmente legato all’organismo vivo. E questa stessa alternanza tra coscienza e incoscienza è una rappresentazione di effetti che il sé intesse via via con tutte le altre rappresentazioni, senza poter a tutta prima risalire alle sue cause. Sulla base di queste premesse, è necessario domandarsi se l’individuo può spingere la sua coscienza o la sua esperienza nell’ambito di ciò che, sulla base dell’attività organica del corpo, determina questa alternanza. In altre parole, può l’uomo scoprire come funziona questo meccanismo che attiva la sua coscienza ad intervalli più o meno regolari? A questa domanda tanto conseguenziale quanto semplice si è tentato di rispondere in via sperimentale empirica dissezionando l’organismo (celebri furono i tentativi nella seconda metà dell’ottocento di scoprire la sede anatomica dell’anima) e più recentemente analizzando le emissioni elettromagnetiche del sistema nervoso, oppure vivisezionando l’anima nell’ambito delle indagini sull’ipnotismo e sui fenomeni psichici, o infine costruendo nell’ambito della psicologia – celebre la definizione di scienza dell’anima (dal greco antico psykhé) senz’anima - dei sistemi teorici astratti (modelli teorici) sentiti come base necessaria per tentare di mettere ordine nella straordinaria complessità dei fenomeni della vita e della coscienza.
Tuttavia, un’altrettanto semplice considerazione forse varrà a dimostrare al buon senso che questi tentativi più che giustificati dal punto di vista antropologico-evoluzionistico di impegnare il proprio libero pensiero di ricercatori nella spiegazione dei fenomeni puramente materiali, sono però destinati a fallire: come può infatti una coscienza che sperimenta la realtà sulla base dell’attività corporea riuscire a scoprire ciò da cui il corpo stesso deriva rimanendo nell’ambito dei propri limiti? Detto altrimenti, se presuppongo che la coscienza e tutto il suo contenuto sia frutto dell’attività materiale del mio corpo, come posso sperare che nell’ambito di questa coscienza io sia in grado di capire come il mio corpo riesce a crearla? Evidentemente, non potrò saperlo mai perché è il corpo stesso a costituire la barriera insormontabile che separa la mia coscienza da quell’ambito dal quale il corpo stesso deriva. Se dunque la logica ha una qualche utilità, coerenza impone che sulla base di quelle premesse la conclusione sia inevitabile; come del resto è stato ammesso dalla comunità scientifica mondiale fin già alla fine del XIX secolo, riaffermando in campo scientifico sperimentale l’esistenza degli stessi limiti alla conoscenza già affermati da Kant, per cui alla domanda cruciale: Come può la coscienza scaturire da processi puramente materiali? La comunità scientifica per bocca di Du Bois Reymond rispose e risponde: Ignorabimus, non lo sapremo mai! Una risposta solo superficialmente o apparentemente logica e coerente da parte dello studioso perché fin dall’epoca nell’ambito delle comunità scientifica accademica mondiale continuano ad essere riproposti gli stessi approcci sperimentali di stampo illuministico che prendono in considerazione soltanto ciò che può essere materialmente osservato e misurato dall’uomo medio, con ciò confinandosi evidentemente nell’accennata strada senza via di uscita.
Naturalmente, tuttavia, ciò non significa in assoluto che non sia possibile rispondere positivamente a quella domanda, ma soltanto che non è certamente dissezionando il funzionamento della macchina corporea che si riuscirà a scoprirne il funzionamento. Se per ipotesi esistesse un percorso che l’essere umano sano può seguire per arrivare a conoscere i fattori alla base del funzionamento corporeo, ciò significherebbe che la coscienza rappresentativa dell’uomo trova nel corpo soltanto un appoggio, un incipit e non propriamente la sua ultima ed unica fonte.
Se l’ispirazione, l’intuito o anche la semplice curiosità ci spingono a ricercare liberamente nuove strade alternative al vicolo cieco in cui l’opinione pubblica scientifica ha rinchiuso sé stessa; se è vero - parafrasando il senso delle parole di un grande scienziato del secolo scorso come Ettore Maiorana - che nel rapporto con la realtà l’intuizione ha un’importanza ben superiore ai calcoli matematici con cui essa può essere rivestita, allora un secondo ordine più approfondito di riflessione e di risposte può mostrare a chiunque che l’essere umano affronta l’esistenza perché essa è fonte di conoscenza; che si tratta di una conoscenza che cerchiamo spontaneamente di rendere sempre più completa; e che il fatto di vivere l’esperienza sentendoci sempre uguali ma anche sempre diversi dimostra, dopo attenta e meditata riflessione, che ciò che possiamo sperimentare con la nostra coscienza è evidentemente soltanto una piccola frazione di una realtà più ampia. Il fatto che l’esperienza scorre davanti al nostro sguardo intellettuale è paragonabile all’esperienza di qualcuno che guardi una mucca passare dietro ad una staccionata attraverso una stretta fessura nel legno: non vedrebbe mai l’intera mucca pezzata ma soltanto colori bianchi e neri che si succedono temporalmente l’uno dopo l’altro, con la conseguenza di attribuire al tempo ciò che è presente tutto intero nella realtà, quindi incorrendo in un errore di conoscenza pur avendo applicato la logica in maniera impeccabile.
Si può arrivare così a spezzare i limiti che spesso l’essere umano pone a sé stesso per paura inconscia di conoscere l’ignoto, oppure per rispetto di un’autorità esteriore o anche semplicemente perché ereditati sotto forma di condizionamento biologico. Intuire i propri reali limiti di fronte alla vastità della realtà può accendere quel senso di umiltà che a sua volta può consentire l’accesso ad un caldo sentimento di venerazione per la conoscenza, per il Vero. E se poi a questa constatazione aggiungiamo la consapevolezza del fatto che la logica – e quindi il calcolo e la statistica - di per sé sono soltanto il primi gradini della conoscenza perché ci conducono invariabilmente a conclusioni spesso in contraddizione con i fatti, potremo risvegliare in noi il grandioso sentimento degli antichi che consideravano la verità come una rivelazione divina, ed i pensieri del mondo come intelligenza cosmica, da considerarsi perciò come qualcosa di sacro. Se oggi ogni essere umano è potenzialmente libero di muovere i suoi pensieri in piena libertà a partire dalla combinazione intellettuale di tutta la sua esperienza sensoria del mondo materiale che gli è accessibile, ciò non può che essere la prova necessaria e meravigliosa del progresso dello Spirito attraverso l’evoluzione dell’essere umano. Come possiamo dunque afferrare i nostri cambiamenti nel tempo come aspetti del nostro sé più profondo?
La venerazione per ciò che trascende i limiti dell’uomo può assumere una sfumatura diversa a seconda del luogo sulla terra in cui si è nati, quindi della configurazione biologica e culturale che contrappone fondamentalmente l’individuo e la mentalità orientale a quella occidentale. Il sentimento della venerazione, osservabile nella sua spontaneità in qualunque bimbo, è una caratteristica misteriosa ma universalmente umana, che può essere mantenuto o risvegliato anche nelle fasi successive della vita dalla cosiddetta personalità che sperimenta il proprio cambiamento da un lato nel corpo e nei sensi, e dall’altra nei pensieri della mente e nella rappresentazione del proprio io; una personalità che cerca di conquistare una rappresentazione generale o una visione del mondo nella quale, in particolare, anche inconsapevolmente ci sia un posto coerente per sé stessa che aspira all’immortalità o all’eterno. Nello sforzo per arrivare ad uno sguardo generale della propria esperienza nel mondo qualsiasi individuo rivelerà proprio in questo genere di aspirazione le caratteristiche universali dell’io che, come il pensiero logico o matematico, è un fatto universalmente umano. A questo proposito, va osservato che la rappresentazione dell’io in effetti non proviene come qualsiasi altra rappresentazione - ad esempio la montagna, la sedia, la legge o il luogo dei punti equidistanti da un centro (il cerchio) – dalle esperienze derivate dall’urto con il mondo esterno che vengono combinate dall’intelletto, ma pur tuttavia è una rappresentazione altrettanto chiara e definita in grado di fornire alla personalità un solido centro di riferimento a cui collegare tutto il resto dell’esperienza e porsi delle mete da raggiungere. Ma in quanto rappresentazione, come tutte le esperienze anche quella dell’io si dilegua durante il sonno notturno.
Mentre fondamentalmente diversa appunto, pur declinata secondo sfumature particolari di luogo e di tempo, è la specifica rappresentazione del mondo che caratterizza la mentalità orientale rispetto a quella occidentale, tale da riempire il sentimento di meraviglia e venerazione di contenuti e sfumature nettamente diverse in una caso e nell’altro. Tu lettore, sei nato in Oriente o in Occidente?
La visione del mondo orientale è tipicamente caratterizzata dalla a-temporalità, da un movimento circolare che ripete sé stesso sempre uguale, e dalla contrapposizione dell’individuo al mondo materiale da considerarsi un luogo di corruzione e di dolore, dal quale è necessario e perciò saggio fuggire prima possibile. Vediamo ancora oggi, specialmente attraverso il punto di vista buddista, come l’individuo veda davanti a sé un biforcazione ineludibile: entrare nel mondo e corrompersi oppure cercare di purificarsi dalla contaminazione del mondo per ritirarsi da esso e non tornarvi mai più. Il modo di pensare che contraddistingue la visione buddista della vita è rivelato ad esempio dal fatto che le rappresentazioni umane, i concetti come il carro nel racconto del saggio Nagasena, non hanno in definitiva alcun riscontro nella realtà perché l’insieme delle parti – in questo caso le ruote, l’asse, il sedile etc. – rimanda sempre a qualcosa che trascende le parti stesse, come appunto il fatto che nessuna dei pezzi di cui è composto il carro è il carro stesso. E pertanto il concetto di carro è soltanto un nome che non ha riscontro nella realtà materiale; e viceversa tutti i costituenti fisico-materiali delle cose sono privi di significato e di reale valore. Ciò riconferma la classica visione indiana ben più antica che vede nella realtà materiale una assoluta illusione, fonte di inganno, dolore e morte. Persino nelle sue propaggini più occidentali, nel mondo slavo e magiaro, il portato della cultura dei popoli orientali è sostanzialmente caratterizzato dall’eterno ritorno della saggezza primordiale dei padri.
La visione del mondo occidentale, viceversa, com’è noto ha ricevuto il suo carattere fondamentale dal senso della storia e dal concetto di evoluzione e di progresso lineare che ne derivano, entrati inesorabilmente nell’esperienza umana attraverso il Cristianesimo. La Vita salvifica del Redentore, arrivato sulla Terra attraverso un evento cosmico unico e irripetibile come Unigenito Figlio di Dio, prende il posto del dolore e della morte, illuminando dall’interno della storia stessa la saggezza dell’oriente e infondendole un nuovo e più profondo significato per tutta l’umanità. E’ così che, riprendendo l’analogia dalla tradizione buddista, lo spirito dell’insegnamento cristiano sulla vita considera invece le parti di un tutto, come il carro o meglio ancora come l’uomo vivente come elementi che proprio dalla natura dell’insieme traggono il loro significato ed il loro valore: la mano o il cuore, staccati dal corpo, non hanno senso. Quindi il Cristianesimo indica al contrario proprio il significato che ogni parte riceve dall’insieme, che non è naturalmente la semplice somma delle parti ma qualcosa di qualitativamente superiore. Perciò è evento e religione di Resurrezione perché qualsiasi esperienza umana terrena, anche la più dura può essere considerata il mezzo specifico e prezioso attraverso il quale perfezionare la propria individualità lungo una direttrice evolutiva che prevede sorprendentemente la trasformazione definitiva e totale dell’esperienza terrena nel maggior Bene possibile e concepibile per l’uomo.
A partire dunque dalle proprie origini e sensibilità, la ricerca della felicità attraverso il cambiamento della vita conduce l’individuo contemporaneo a scoprire aspetti del proprio sé più profondo che sono autentiche tracce della storia dell’evoluzione umana, realizzando pian piano a misura delle proprie forze interiori risvegliate quell’incontro diretto con la Verità e la Realtà che costituisce in definitiva l’obiettivo finale dell’avere una visione del mondo in cui ci sia posto anche per la propria aspirazione all’immortalità.
Il percorso Intelletto Attivo attualizza la profonda verità che sapere è potere, consentendo di contestualizzare concretamente il proprio percorso di vita per guadagnare in libertà ed autonomia, e da lì muovere al proprio orientamento esistenziale. Tutte le fasi della vita possono così ricomporsi in un quadro armonioso in cui la venerazione provata durante la fanciullezza per le rivelazioni del mondo riappare in tarda età come capacità e volontà di benedire riversando sul ogni essere ciò che la vita ci ha donato. Junio Palenca
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